giovedì 1 dicembre 2011

Vola mio minibar

Il mio commento al racconto della scrittrice croata. 
Per me il minibar è sempre stato una sorta di tabù religioso, una mela da non cogliere perché così mi era stato detto o perché così era stato detto a qualcunaltro e poi tramandato. Ma si sa, a non parlarne poi ci si dimentica, ci si dimentica persino che si trattava di un tabù e oggi il minibar è mio.


Morte al minibar!
Alla reception riempio il modulo con tutti i miei dati e prendo la chiave. Mentre mi avvio verso la stanza la receptionist mi fa: “Vuole aprire un conto nell’hotel?”. “Cos’è?”, chiedo. “Significa che non deve pagare immediatamente per tutto quello che prende o che usa nell’hotel, deve solo darci il suo numero di conto”. Rispondo di no. A che mi serve un conto nell’hotel? Starò qui solo tre giorni. La colazione è compresa e sarò in giro per la maggior parte del tempo.
La stanza è grande, lussuosa, e ha un profumo fresco. I mobili sono sicuramente nuovi di zecca, il bagno è enorme e le pesanti finestre si aprono delicatamente premendo un pulsante. Non ho neppure cominciato a disfare la valigia quando sento bussare alla porta. “Ha bisogno di qualcosa?”, chiedo al giovane fattorino. “Mi spiace, ma devo chiudere a chiave il minibar”. “Perché?”. “Perché non ha aperto un conto nell’hotel”, risponde dirigendosi verso il minibar, mettendolo sotto chiave e andandosene.
A un tratto sento la lama dell’invisibile spada dell’ingiustizia puntata contro la mia nuca. Io non li uso neppure, i minibar. Non vado d’accordo con l’alcol, non mi piacciono le patatine unte e stantie, odio le noccioline di ogni tipo, le barrette caramellate di dubbia origine non sono il mio genere, gli strani liquidi imbottigliati mi provocano immancabilmente il bruciore di stomaco e le bibite analcoliche gassate fanno semplicemente male alla salute. La conclusione è che un minibar non contiene nulla che io possa desiderare. E allora perché mi sento così umiliata? Solo perché il fattorino ha chiuso a chiave il minibar? Ha forse messo un lucchetto alla doccia, al rubinetto del bagno, al telecomando della tv, alla tavoletta del wc? Niente di tutto questo. Cerco di razionalizzare, di consolarmi pensando al letto voluttuoso o alla doccia calda: tutto inutile. Sono inconsolabile. È una disperata sensazione di perdita.
Dicono che il minibar sia stato realizzato per la prima volta da una ditta tedesca, la Siegas. Ma a quanto sembra dobbiamo la sua onnipresenza all’intuito visionario di un direttore d’albergo, Robert Arnold. Wikipedia ci informa che Arnold era su un aereo della Thai Airways in volo da Bangkok a Hong Kong nel 1974 quando vide per la prima volta delle minuscole bottigliette di alcolici. Arnold ordinò una partita di bottigliette e il suo datore di lavoro, l’Hilton del posto, decise di scommettere sull’onestà dei suoi clienti. Li ribattezzarono Honesty minibar. Qualche mese dopo, nel mondo degli alberghi si diffuse la notizia che l’Hilton di Hong Kong aveva quintuplicato la vendita degli alcolici. Da allora i minibar sono una componente obbligatoria di ogni albergo del mondo. Tutto grazie a Robert Arnold e a un’epifania ispirata da un rapido sguardo a una minuscola bottiglia. Tra parentesi, delle bottigline di questo tipo si vendevano nei bar di quella che un tempo era la mia patria. Gli appassionati le chiamavano affettuosamente “piccolini”.
In effetti è questo il punto: l’amore. I minibar sono una questione d’amore. Pensiamoci un attimo: cos’è in realtà un minibar? Un minibar è concepito come una casa di bambole per adulti. Gli uomini amano i loro “piccolini”. Le fiaschette tascabili, il sogno adolescenziale dei settantenni di oggi, erano soprannominate “amichetti”. Piccolini, amichetti, minibar: sono tutti diminutivi per una colpa. Ma il diminutivo di colpa non è più una colpa, è una simulazione della colpa. E questo spiega l’effetto straordinario del minibar.
Per molti uomini d’affari che si sentono soli, il minibar è il sostituto simbolico della casa. Tornare in camera tua, aprire lo sportellino del frigo, stappare una bottiglia di birra, sprofondare in poltrona e mettere i piedi sul tavolo: è un rituale profondamente radicato nell’immaginario, perfino per quelli che non tornano a casa, non aprono il frigo e non tirano fuori una birra.
Il minibar è anche concepito come un kit di pronto soccorso: magari non lo avete mai usato, però il pensiero di averne uno vi fa sentire sicuri e protetti. È per questo che certi minibar contengono anche dei preservativi. Amichetti che vi proteggono dai piccolini.
Infine, il minibar è una specie di tempio, un luogo dove ci troviamo a tu per tu con la metafisica. Vi svegliate in una stanza d’albergo dopo un incubo. Circondati da un’oscurità indifferente, non c’è nessuno ad abbracciarvi e consolarvi. Il minibar emana una luce fioca (trascendente), bottiglie e pacchetti se ne stanno dritti con aria contrita, come in una cappella. Il minibar irradia serenità. Nel buio spaventoso di una stanza d’albergo, questa visione illuminata agisce come il diazepam. Va tutto bene. Sono tornato nella realtà: l’incubo è finito.
Questo psicodramma – casa, colpa, pronto soccorso, tempio – si risolve al banco della reception quando te ne vai. La risposta è la domanda finale e definitiva che ogni receptionist rivolge a ogni cliente in ogni albergo del mondo: “Ha preso qualcosa dal minibar?”. In quel momento il cliente sente il morso doloroso della colpa metafisica. Honesty minibar? In certi hotel le cameriere controllano il contenuto del minibar ogni mattina rifornendolo immediatamente e rendendo inutile questa domanda. Eppure tutti i receptionist la fanno, e la fanno tutti con lo stesso tono arrogante. La rabbia del cliente comincia a montare. Non solo hai pagato in anticipo la stanza, non solo hai pagato un costosissimo caffè nel bar dell’albergo, non solo hai pagato questo, quest’altro e quest’altro ancora, ma poi devi sopportare un semplice receptionist che ti sottopone a un test umiliante sulla tua onestà. Nulla è gratis nella vita. Niente da obiettare. Ma perché, perché il costo è così alto?!
Il minibar è una scappatella costosa, proprio come una seduta psicoanalitica. Il minibar riproduce lo stesso modello. Da qui il tono autoritario del receptionist, da qui le indagini nella tua stanza e le ispezioni in tua assenza, da qui la tua legittima rabbia davanti a un insopportabile sfoggio di potere. In questa seduta psicoanalitica il receptionist si trasforma in una madre o un padre autoritari, nel tuo capo al lavoro, nella polizia, in un’istituzione con cui è impossibile negoziare. Perdio, potresti fregarti gli asciugamani, gli accappatoi, la lampada da tavolo, potresti smontare il lavandino o i rubinetti della doccia e filartela impunemente con tutta questa roba, ma è un pensiero che non ti aiuta. Ti immobilizzano contro la parete per un’infima bottiglia di pessimo vermut e un pacchetto di patatine rancide.
Non so se chi lavora negli alberghi legge i forum di internet. Basta digitare la parola “minibar” per vedere apparire gli eserciti degli arrabbiati, spesso impegnati a combattere una guerriglia personale. Sapevate che ci sono persone che urinano nelle bottiglie di birra vuote e le rimettono a posto nel minibar? E che c’è chi cosparge di lacca per capelli la base delle bottiglie e poi le incolla alle mensole del frigo, costringendo il cliente successivo a lottare spasmodicamente per cercare di staccarle? Sapevate che se non controllate il minibar al vostro arrivo nella stanza, probabilmente vi stangheranno per una mezza bottiglia di birra che qualcuno ha furtivamente infilato nel vostro frigo?
E che ne dite di questo: esistono perfino dei minibar con sensori incorporati che registrano ogni movimento e cambiamento di peso, in modo che se non rimettete a posto la bottiglia o le patatine nel giro di dieci secondi dovrete pagarli comunque. A chi non salterebbero i nervi? Cercano in ogni modo di appiopparti un bicchierino e allo stesso tempo pretendono la tua onestà. Hanno deciso tutto in anticipo: sei un ladro, un truffatore e un alcolizzato. Il minibar è il simbolo del mondo totalitario. A proposito, siete sicuri che alle porte del paradiso san Pietro non vi accoglierà con la domanda: “Hai preso qualcosa dal minibar senza pagarla?”, e poi, a seconda della vostra risposta, vi manderà in un albergo celeste a una, tre o sette stelle?
Nella mia lingua madre la parola “minibar” contiene molti altri termini. Due sono particolarmente significativi in questo contesto: rab o rob, che significa “schiavo”, e mina, come in mina terrestre. Il minibar è un campo minato, perché appena ne incroci uno diventi uno schiavo. Oggi che quasi tutti i sistemi totalitari sono esplosi (d’accordo, sarebbe meglio dire che sono implosi), il minibar è una granata totalitaria annidata in uno spazio accogliente privo di qualunque ideologia: la stanza d’albergo. Il minibar è l’ultimo bastione del totalitarismo, il suo nido invisibile. Lottare contro il minibar è possibile, ma solo con azioni di guerriglia personale.
E così, tornando all’hotel di cui parlavo all’inizio, questa è la mia confessione: ho lanciato il mio assalto al minibar nella stanza 513. L’ho spinto nel bagno. L’ho sfigurato con la chiave dell’albergo incidendo morte al minibar! sulla sua superficie levigata. L’ho gettato nella vasca da bagno e ho aperto il rubinetto. E alla fine, quando la receptionist mi ha chiesto: “Ha preso qualcosa dal minibar?”, ho risposto: “Non mi avrete neanche morta!”.
Dobbiamo unire le nostre teste. Se gli hotel sanno mettere sensori nei loro minibar, presto troveranno il modo di farci pagare anche solo il pensiero che potremmo aver voglia di qualcosa. 

Traduzione di Gigi Cavallo.
Internazionale, numero 925, 25 novembre 2011
Dubravka Ugrešić è una scrittrice croata. Vive ad Amsterdam. Il suo ultimo libro è Baba Yaga ha fatto l’uovo. Questo articolo è uscito sulla Paris Review con il titolo “Assault on the minibar”. 

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